Scrivo “pedagoga”, ma preferisco la parola al maschile altrimenti mi sembra suoni un po’ bizzarra.
Sono un pedagogo della recitazione, o acting trainer, come è denominazione più comune.
Amo insegnare. Ho cominciato per due ragioni:
1) potevo osservare e fare ricerca nel mio campo e andare a scoprire perché a volte i meccanismi espressivi si inceppano. Superare i miei limiti avendo sempre e solo me stessa come “problema” mi aveva portato ad un punto morto. Una porta chiusa. Con gli allievi invece mi venivano intuizioni inaspettate e qualcosa dell’energia speciale della mia maestra Susan Batson si sprigionava in classe. Capivo e trasformavo. Era emozionante e ogni lezione densa di successivi sviluppi. Fertile. Recitare diventava un oggetto di scambio, partecipazione, riflessione. Qualcosa da offrire che al tempo stesso migliorava me e le mie di prestazioni professionali.
2) mi autoproducevo il lavoro. Come attore autoprodursi il lavoro è molto complicato, bisogna avere una salda sicurezza in chi sei e nei tuoi mezzi. Conoscerti. Non ne ero ancora capace, né avevo mai trovato durante i miei primi passi qualcuno in grado di insegnarmi la fiducia e spronarmi alla creatività. La mia maestra aveva appena iniziato a farmi fare la mia rivoluzione artistica. Sapevo come comportarmi ad un provino sulla base di una richiesta specifica, questo sì, quel livello di professionismo lo possedevo. Ma ideare un progetto, occupare un teatro e farlo, no. Invece la mia immaginazione come insegnante creava esercizi, processi di lavoro, concepiva spettacoli e scuole. Non si fermava mai. Così la mia attività in questa direzione si è espansa sempre di più.
Ho una convizione: che non c‘è traguardo che non si possa raggiungere attraverso il lavoro e l’esercizio. Allora il punto è capire che tipo di lavoro possa portare a quel traguardo. E poi esercitarsi. Fermo restando alcuni principi metodologici, si tratta solo di insistere nell’esercizio e arrivare fino in fondo. Cioè fino a padroneggiare il proprio strumento.
Essere attori non vuol dire che la scena viene da sé: istinto non vuol dire assenza di pianificazione, né che la preparazione guasti la forza d’impatto del risultato, queste sono illusioni. Ma non esiste nemmeno un lavoro predeterminato che funziona per tutti. Bisogna intuire cosa serve. Ecco, quest’intuizione è una delle mie maggiori qualità pedagogiche.
Questo punto di vista ha un rovescio della medaglia: che il successo dipende da tenacia e disciplina. Che non ci sono scuse per fermarsi e dire “non mi riesce”…Purtroppo non sempre è un punto di vista bene accetto.
Ma ho la totale fiducia nella riuscita del lavoro. E’ una fiducia che ho acquisito insegnando, me ne sono appropriata io come artista e cerco di trasmetterla a chi studia con me.
“ …in particolare, mi sto avvalendo della mia formazione americana avvenuta soprattutto con Susan Batson (con cui ho studiato per diversi anni, anche se in maniera non continuativa), arricchita da alcune informazioni avute da altri (soprattutto esercizi e training) e poi dagli stimolantissimi seminari italiani di Arthur Penn e Anatolij Vasil’ev, più tutto quello che ho preso dalla mia esperienza, osservazione, studi, libri (in particolare cito la funzione fondamentale cha stanno avendo per lo sviluppo della mia didattica la lettura di Michail Cechov, Roland Barthes e del prof. Raffaele Simone, docente di Linguistica all’Università RomaTre, letture queste di linguistica fatte prima a livello amatoriale e ora universitario)…ecc. ecc., per creare una disciplina di lavoro e allenamento che possa integrarsi con le tradizioni e consuetudini esistenti in Italia e le “vivifichi” (o meglio vivifichi l’attore nel relazionarsi ad esse e lo renda creativo in ogni contesto). Non pongo soltanto l’attenzione sull’aspetto del Metodo che riguarda il “reale” (che in Italia non è veramente richiesto essendo il lavoro dell’attore basato principalmente sugli aspetti soprasegmentali del testo e il far vedere piuttosto che il far succedere), ma sull’aspetto del Metodo riguardante l’organicità degli impulsi, l’arco narrativo, le scelte e le azioni, perché è quanto di più integrabile e sorprendentemente utile ed utilizzabile con il sistema vigente e le richieste professionali, sia in teatro che in cinema. In una parola, cerco di insegnare a “far succedere” e poi a “far succedere” all’interno e nel rispetto degli schemi imposti, rielaborando il sistema delle actions in funzione delle direttive del regista, delle intenzioni dell’autore e delle caratteristiche linguistiche e stilistiche del testo.
Attualmente e in ragione di quanto sopra le mie ricerche si sono focalizzate sulla “creatività del gesto”: cioè sulla completezza espressiva e contenutistica e sull’efficacia comunicativa del codice. Per fare ciò assume un’importanza capitale nel mio lavoro il corretto uso dell’immaginazione e del movimento funzionale, cioè delle funzioni cognitive dell’apprendimento legate all’esperienza fisica di esse: sto parlando del corpo dell’attore nella sua accezione più completa e della sua bizzarra coincidenza di strumento e strumentista nel medesimo tempo.
Infine mi sto occupando di problematiche relative al linguaggio e alla comunicazione. “